Prendo spunto da una dichiarazione di Jeremy Parzen sul wine blog della Huston Press riguardo ad abbinamenti vino- cibo, opportuni o meno.
Nel post si rileva che gli europei e gli italiani in particolar modo hanno un atteggiamento piuttosto rigoroso sul fatto che vini importanti debbano necessariamente essere abbinati a piatti importanti e restino sempre piuttosto sconcertati dalla naturalezza con cui oltreoceano si abbinino spesso grandi bottiglie con piatti da noi ritenuti, se non proprio cibo spazzatura, almeno piatti molto, ma molto poveri. Viene fatto l’esempio del Barbaresco, grande rosso piemontese, che i canoni classici vedono in matrimonio con brasati, stracotti, oppure fondute o risotti cosparsi di tartufo in un’apoteosi di sopraffina grevità piemontese.
L’esperimento fatto con questo prodotto da uve Nebbiolo, con una bottiglia di perfetto bilanciamento in bocca fra salinità e note dolci da riduzione di vino rosso, è stato – inorridite pure – con un cheeseburger. Meglio la solita Cola? Pare proprio di no. Acidità e tannini del vino, infatti, hanno mirabilmente contrastato la grassezza dell’hamburgher. Invece della solita valanga di ketchup a fare da nota acida, coprendo qualsiasi altro sapore, il fruttato del vino ha lasciato intatto il gusto di carne e formaggio cheddar sposandosi in un contrappunto dolce – sapido a detta di chi ha provato “glorioso”.
Dunque l’effetto definito nel post “burro e marmellata” (o cacio sui maccheroni, se preferite, restando nell’alimentare) per gli esperti statunitensi funziona anche nel senso dalle stelle alle stalle e non solo se resta un connubio d’alto bordo.
Sono abbastanza d’accordo, fondamentalmente per questi motivi:
– La nobiltà di un vino o di un cibo è un fattore culturale con origini abbastanza accidentali. Per caso si scopre che un prodotto è sublime (vedi kopi luwak). Per caso il prodotto è o diventa raro (vedi bianchetto d’alba). Per caso risulta gradito alle papille gustative degli umani
– Il trash non sta tanto nella tipologia di ricette e dall’abbinamento dei prodotti. Ma nella qualità dei medesimi. Un filetto alla Wellington fatto con carne di scarto e un pessimo paté e molto più trash del cheeseburger perché imita quello che vorrebbe essere ma non è. Quindi un cheeseburger fatto con buoni prodotti è decisamente meglio di un cattivo Wellington. Anzi è buono in assoluto
– Il percepire la bontà dei sapori e quindi anche degli abbinamenti, oltre ad un fatto culturale dovuto ad abitudine, conoscenza, educazione, è un processo neurofisiologico. Per via dei recettori sulla nostra lingua. Per via della combinazione dei gusti di base.
Le gemme gustative presenti nelle papille gustative della lingua, nel palato, nella faringe, nelle guance e nell’epiglottide, percepiscono sinergicamente i cinque gusti fondamentali: amaro, aspro, dolce,salato umami. Pare addirittura che anche il grasso sia un gusto fondamentale. Ora i gusti fondamentali non stanno solo negli alimenti oltre i 50 € al chilo. L’importante è saperli accostare, non abbinarne troppi (si dice che un piatto sia perfetto quando possiede un elemento di ciascun gusto fondamentale), bere un vino che bilanci armonicamente le note prevalenti.
Un altro esempio? Provate le alette di pollo fritte (resto volutamente in campo fast food e in terra americana) con un frappé. Poi provatele con un bel bianco minerale, ad esempio un buon Timorasso (raro vitigno autoctono dell’alessandrino), poi ditemi cosa va meglio.
Elena
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