La pizza nel convegno per antonomasia dell’alta ristorazione? Certo, dato che è una parola universale, ma assolutamente italiana. E a maggior ragione per il fatto che alcuni, all’estero si spera, pensano che sia made in USA.
Recuperiamo dunque orgoglio nazionale, in barba agli esterofili e alle pizze di gomma vendute in tutto il mondo (anche in Italia), grazie all’intervento di tre grandi della pizza che dialogano amenamente insieme ad uno che pizzaiolo non è, ma che conosce l’eccellenza e che in quelle pizzerie è cresciuto: Gennaro Esposito.
Si parte con il classico napoletano, Gino Sorbillo dell’omonima pizzeria di Napoli, che ha illustrato gesto dopo gesto la preparazione dell’impasto. Grano tenero, 9 ore di lievitazione, abilità e virtuosismo nelle rotazioni che si fermano qualche millimetro prima dell’inevitabile “cornicione” che dev’essere rigonfio, morbido dentro e croccante fuori. Il resto è l’essenziale: pomodoro pelato spezzato a mano per mantenere la consistenza, fiordilatte di Acerola a fette, basilico, olio. Per il calzone una spalmata di ricotta di pecora, ciccioli di maiale, sale,olio, e nel chiudere eliminare il residuo del bordo, per evitare che si mangi troppa pasta a scapito del ripieno, che è poi lo stesso procedimento della pizza fritta. Sopra un po’ di pomodoro , più che altro coreografico.
Si passa poi ad un’altra declinazione della pizza, più recente, ma ormai un classico: la pizza a metro, raccontata da Luigi Dell’Amura di” Pizza a Metro” di Vico Equense il cui nonno panettiere, a inizio secolo, per sfamare tutti i dipendenti, s’inventò questo prodigio di marketing gastronomico come alternativa ai fagioli. Una pasta lunghissima, su cui si metteva quello che si aveva, cotta nel forno. Carlo Zecchi, noto pianista, ospite “suonante” dei nobili locali, divenuto un “fan” di nonno dell’Amura gli chiedeva: “quanti metri di pizza hai preparato?”. Voilà, il gioco è fatto! Oggi la pizzeria di Dell’Amura, dove Gennaro Esposito ricorda di aver lavorato e.. mangiato qualche centimetro, ha codificato il procedimento: pasta più morbida, mozzatura a mano, fiordilatte messo prima del pomodoro, fresco in stagione, per evitare che impregni la pasta, già morbida di per sé, forno a temperatura più bassa (450°C) per un tempo più lungo. Il tutto, poi, gentilmente offerto alla platea, che ringrazia sentitamente.
Infine la pizza di ricerca di Simone Padoan de “I Tigli” di San Bonifacio (Vr) unica a lievitazione naturale, farina semintegrale macinata a pietra, tre lievitazioni: la prima mallolattica, la seconda acetica, la terza alcolica: un vero e proprio fisico della pizza, che fa cotture separate, cuoce a 300 °C la pasta da sola, poi la rigira perché gli alveoli perfettamente tondi della lievitazione possano continuare a crescere in verticale, poi aggiunge datterini sbollentati e saltati con aglio e olio, poi la taglia affinchè il vapore dei famigerati alveoli evapori lasciando la pasta croccante, infine mette le fette di mozzarella di bufala, sgocciolata, scaldata a parte pochi minuti affinchè rilasci l’acqua e finisce con olio da tonda iblea e origano dell’Etna. Oppure si lancia in tutta la range di ingredienti straordinari che uno chef di razza può reperire, dai gamberi crudi ai sapori dolci. Qui la pizza sembra essere un pretesto per l’alta cucina. Oltre a quanto espresso da questi tre moschettieri non sembra possibile dire altro. Anzi, si: ho assaggiato anche la “margherita” di Padoan testè descritta e l’ho trovata straordinaria.
Elena
1 Comment